da "il manifesto" del 16
Gennaio 2004 Il caso Parmalat e
l'economia politica della menzogna. Un sentiero di lettura
L'inganno della baby sitter
Parmalat, Enron, WorldCom, Crédit Lyonnais,
Vivendi sono accomunate dallo stesso circolo ben poco virtuoso che
si snoda tra falsificazione della contabilità e gioco spericolato in
borsa. Ma quello che molti studiosi considerano solo una illecita
distorsione nel funzionamento dell'economia è invece una delle
caratteristiche strutturali del cosiddetto capitalismo cognitivo. Da
Guido Rossi a André Gorz, da Barbara Ehrenreich a John Plender,
alcuni libri per ricostruire genesi e sviluppo di un rapporto
sociale basato sulla asimmetria di conoscenza tra forza-lavoro e
impresa, nella quale il management cerca di appropriarsi del sapere
CHRISTIAN MARAZZI, L'inchiesta giudiziaria sulla rete di rapporti
fraudolenti tra Parmalat, banche, brokers, revisori, controllori,
paradisi fiscali, è ancora agli inizi e già un'altra multinazionale,
l'Adecco, l'agenzia di lavoro temporaneo che «occupa» su scala
mondiale qualcosa come 650 mila lavoratori interinali, rischia di
collassare per (si sospetta) i soliti motivi: conflitto di
interessi, cioè connivenza tra impresa, istituti bancari e
finanziari, agenzie di rating finalizzata alla falsificazione della
contabilità aziendale e all'occultamento dei debiti interni. Di
nuovo, come dal caso Enron in poi, passando per WorldCom, Crossing,
Tyco, Crédit Lyonnais, Vivendi, Ahold, Kirch, Marconi e Equitable
Life, l'azionariato diffuso e i fondi pensione e d'investimento
subiscono perdite enormi a causa di un virus che sembra ormai aver
stabilmente ammorbato il funzionamento normale del capitalismo
finanziario. Alla luce della sistematica ricorrenza di alcuni
comportamenti criminali all'interno del ceto manageriale e
istituzionale del nuovo capitalismo e, anche, della dimensione
globale del fenomeno, è necessario interrogarsi sui motivi
strutturali di questa forma di epidemia. A tal fine è di grande
attualità e utilità il libro di Guido Rossi, Il conflitto
epidemico (Adelphi) nel quale l'autore, dopo avere
opportunamente situato la radice dell'odierno conflitto di interessi
nella finanziarizzazione mondiale del capitale, cercando di
«spiegare la crisi in termini non antropologici, ma strutturali»,
individua l'origine di tale conflitto nella asimmetria
informativa, nelle differenti informazioni cioè «di cui
dispongono l'operaio e il suo datore di lavoro, il prestatore e il
mutuatario, la compagnia d'assicurazione e l'assicurato». Sull'onda
degli studi di Joseph Stiglitz, «quel che è certo - scrive Rossi - è
che quando tale squilibrio si manifesta siamo in presenza del germe
di un conflitto di interessi», un conflitto che l'istituto del
contratto non sembra ormai più in grado non tanto di sublimare (per
questo basta uno sciopero degli autoferrotrasportatori), ma
soprattutto di regolamentare nell'interesse stesso dello sviluppo
del capitalismo. L'analisi di Rossi è anche una critica ai vani
tentativi da parte di legislatori e politici (come nel caso del
Sabanes-Oxley Act promulgato subito dopo lo scandalo della
Enron) di richiamare l'etica per superare un problema strutturale
quale quello del conflitto epidemico di interessi: «I codici etici
erano già ampiamente presenti nella prassi societaria americana, ma
il caso Enron e quelli successivi hanno reso assolutamente evidente
che lo spazio pregiuridico per il ricorso all'etica non può essere
imposto per legge». Le regole che governano i mercati, conclude con
lucido disincanto Rossi, sono «non solo diverse, ma opposte a quelle
dell'etica - e il conflitto nasce proprio da qui».
Se è certo
che la gestione manageriale dell'asimmetria informativa è alla base
dell'uso metodico e spregiudicato di strumenti finanziari come i
derivati, trucchi contabili, coperture politico-istituzionali e
quant'altro, va comunque detto che nel nuovo capitalismo questa
asimmetria è determinata dalla più fondamentale asimmetria della
conoscenza tra forza-lavoro e capitale. Nella knowledge
economy, o capitalismo cognitivo, il problema centrale per il
capitale è quello di «mettere al lavoro» la conoscenza, il sapere
detenuto dalla forza-lavoro. Che la captazione della conoscenza
altrui rappresenti un vero problema lo dimostra ad esempio
l'assegnazione delle stock options ai lavoratori della
conoscenza che si è diffusa negli anni del boom della new
economy. Peter Druker, nel suo Il management della società
prossima ventura (Etas) ha ragione quando dice che «le aziende
che si sono spinte maggiormente in questa direzione hanno avuto il
turnover più elevato. E' incredibile quanto sono numerosi gli ex
dipendenti Microsoft che mi è capitato di incontrare... Gli ex
dipendenti della Microsoft odiano l'azienda, perché si rendono conto
che essa offrì loro solo del denaro... Inoltre si rendono conto che
il sistema di valori aziendale è unicamente finanziario, mentre essi
si considerano professionisti, con un sistema di valori
diverso».
Non solo, quindi, nel capitalismo cognitivo è
necessario finanziarizzare l'impresa (con l'aumento del prezzo delle
stock options quotate in borsa) per catturare e soprattutto
trattenere il sapere della forza-lavoro, ma questa stessa
forza-lavoro resiste, è capace di sottrarsi alla sua totale
sussunzione sotto il capitale, quando la produzione di conoscenza si
trasforma brutalmente in gestione finanziaria delle informazioni,
cioè quando gli imperativi finanziari (aumento del corso dei titoli)
prendono il sopravvento sulla qualità di vita (o «sistema di
valori») della forza-lavoro, dei knowledge workers.
In
altre parole, il conflitto di interessi all'origine della
degenerazione del capitalismo odierno è un riflesso della
metamorfosi del rapporto tra capitale e lavoro in cui la tensione
tra conoscenza e informazione, tra sapere operaio e sua
captazione/finanziarizzazione, costringe inesorabilmente il capitale
ad agire in modo fraudolento. Si badi che la preminenza della
conoscenza della forza-lavoro sulla capacità capitalistica di
mercificarla, la centralità del «lavorare pensando e comunicando»,
come scriveva Benedetto Vecchi su questo giornale lo scorso 30
dicembre presentando il libro di André Gorz, L'immateriale
(Bollati Boringhieri, 2003), non è circoscrivibile alla sola élite
dei knowledge workers, ma interessa la maggioranza dei
lavoratori e delle lavoratrici. Nel caso di un'impresa come la Wal
Mart, precisa Benedetto Vecchi, «siamo lontani mille miglia da una
impresa sfavillante del lavoro cosiddetto immateriale, ma anche in
questo caso ciò che viene richiesto alla forza-lavoro è di pensare».
La conoscenza di cui il capitale ha bisogno per produrre beni e
servizi è quella che si sviluppa collettivamente in ambito
extra-lavorativo (nella sfera «vernacolare», come dice Gorz) e che
viene salarizzata e gerarchizzata con una molteplicità di
dispositivi istituzionali (flessibilità delle nuove forme del
lavoro, agenzie di lavoro interinale, come l'Adecco, formazione) e
informali (controllo sui flussi migratori, discriminazione e
repressione etnica e di genere).
L'asimmetria tra conoscenza
della forza-lavoro e suo uso capitalistico è all'origine della più
nota asimmetria tra management d'impresa e azionariato. L'economista
e editorialista del Financial Times, John Plender, nel suo
Going off the Rails. Global Capital and the Crisis of Legitimacy
(Wiley) sostiene che nel capitalismo cognitivo vi è
un'abbondanza di capitali alla ricerca di rendimenti elevati, che si
scontra con la scarsità del sapere strategico per le imprese. Per
«scarsità» si deve intendere il costo dei knowledge
workers cooptati dalle imprese, in particolare quelle
produttrici di beni ad alto contenuto tecnologico, un costo che
negli anni `90 ha portato questo settore trainante a destinare
mediamente il 73% dei profitti pre-tasse ai dipendenti (la media
delle 325 imprese maggiori quotate in borsa è del 20%). La tensione
tra abbondanza dei capitali, abbondanza dovuta al deprezzamento del
capitale fisso e al suo alleggerimento, e costo della conoscenza
viva messa al lavoro è, secondo Plender, la dimostrazione della
inadeguatezza storica del sistema azionariale (dello
shareholder's value) nel finanziamento del capitalismo
cognitivo. Il vantaggio competitivo del capitale umano è a tutto
svantaggio degli azionisti che, trovandosi in una posizione
di debolezza nei confronti delle imprese in cui centrale è il lavoro
vivo cognitivo, fanno pressioni fortissime per aumentare il
rendimento dei loro titoli (negli anni `90 un rendimento del 15% era
la norma), in tal modo contribuendo ad ampliare la spirale
autoreferenziale de mercati finanziari fino all'esplosione della
bolla speculativa.
L'agire menzognero è certamente una delle
caratteristiche ricorrenti del nuovo di produzione capitalistico. Se
si legge la migliore ricostruzione della vicenda Enron, quella di
Nicola Borzi (La parabola Enron, Feltrinelli), ci si rende
conto di quanto sofisticata sia ormai la scienza capitalistica del
mentire, sapendo di mentire, di quanta intelligenza sia messa al
lavoro per ingannare chiunque si frapponga alla conquista di
mercati, valore azionario, imprese. Non è un caso se in questi
ultimi anni ci sia stata una produzione letteraria notevole sulla
bugia (per citarne solo uno fra i tanti, ma ottimo, Cistina
Castelfranchi, Isabella Poggi, Bugie, finzioni, sotterfugi,
Carocci), ma il problema è quello di capire quanto di strutturale
nella menzogna ci sia nel nuovo capitalismo. Limitiamoci ad
osservare che nel capitalismo odierno la semiotizzazione, per così
dire, della produzione di merci, cioè la produzione di valore a
mezzo di linguaggio, è un dato incontrovertibile. Le tecnologie
dell'informazione e della comunicazione sono il pendant di quel
«lavorare comunicando» che sta ridisegnando la divisione
internazionale del lavoro e di cui Internet è ormai una
metafora.
Ciò che è nuovo rispetto all'antico agire
menzognero del capitale, ad esempio rispetto all'analisi della forma
feticcio di Marx in cui è la merce che inganna mascherando la verità
dei rapporti sociali di produzione, è che oggi è nel
linguaggio, nella comunicazione stessa che si annidano i
rapporti sociali che l'agire menzognero pretende di mascherare. La
forma linguistica del feticcio si può incominciare a spiegare con la
definizione della semiotica. Umberto Eco, nel suo Trattato di
semiotica generale del 1975, scriveva che «La semiotica, in
principio, è la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato
per mentire». Prima di Eco Nietzsche rincarava la dose affermando
che, rispetto a Parmenide secondo il quale «non si può pensare ciò
che non è», «noi ci poniamo all'estremo opposto e diciamo che `ciò
che può essere pensato deve essere necessariamente una
finzione».
La performatività del linguaggio è dunque
anche la performatività della menzogna, e dunque è lecito ipotizzare
che nel capitalismo cognitivo impregnato di linguaggio, la
produzione di merci a mezzo di menzogna sia un processo per così
dire normale. Il che non lo rende certamente meno odioso e
giuridicamente instabile, sia chiaro, ma costringe a ridefinire la
giustizia (è di Cicerone la massima «Dire la verità è un
fondamentale principio di giustizia») facendo leva sui rapporti
sociali che linguaggio e menzogna feticizzano con
l'inganno.
E' interessante notare come, a due anni dal crack
della Enron, i magistrati si trovano oggi a confronto con una
situazione del tutto anomala e straordinaria. Per colpire finalmente
la testa della banda Enron, cioè per incolpare l'allora chief
executive Jeff Skilling e forse anche il presidente Ken Lay, i
giudici che in queste settimane stanno processando i coniugi Fastow,
il marito Andrew già chief financial executive della Enron e
sua moglie-collaboratrice Lea, devono decidersi se accettare o no la
proposta di ammissione di colpevolezza da parte degli avvocati
difensori a condizione che la signora Fastow possa scontare solo 5
mesi di prigione per poter tornare a casa ad accudire sua figlia
prima che il marito inizi a scontare la sua condanna a una
quindicina di anni. Non si è mai vista una cosa simile (si veda lo
sconcerto del Financial Times dello scorso 12 gennaio), mai i
giudici hanno tenuto conto degli obblighi di baby-sitting di
criminali per decidere se, come e quando incolparli.
In un
libro curato da Barbara Ehrenreich, già nota per il suo libro Una
paga di fame (Feltrinelli), e da Arlie Russell Hochschild,
Global Woman. Nannies, Maids, and Sex Workers in the New
Economy (Metropolitan Books), le studiose americane
ricostruiscono il circuito globale delle tate (nannies) che
dalle Filippine o da altri paesi del sud est asiatico vanno a
lavorare negli Stati Uniti come baby-sitters o come
prostitute, lasciando i propri figli nelle mani di nonne o sorelle.
Il circuito mondiale dell'affetto, in cui il deficit parentale delle
famiglie della new economy viene colmato con un simmetrico
deficit parentale della forza-lavoro femminile nei paesi della
periferia dell'impero, rappresenta bene quello squilibrio
fondamentale, quella «asimmetria informativa» che linguaggio e
menzogna sono chiamati a feticizzare. Quella asimmetria, si potrebbe
aggiungere, di fronte alla quale il quid iuris, vale a dire
le norme del diritto da applicare alle singole fattispecie, sembra
incontrare inediti trabocchetti. Che sia una bambina a smascherare
le contraddizioni dell'equilibrio economico generale del capitalismo
cognitivo, è una prospettiva sovversiva di tutto
rispetto.
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